Monday, 22 November 2010

Repubblica.it: Eccoci servita l'ennesima fanta-storia di Sicilia

L'Isola dei carrozzoni

[In grassetto il vero motivo del risentimento degli autori, ndr]


Il clientelismo risale al '500
Lunedì allo Steri si presenta "La zavorra", saggio di Enrico Del Mercato ed Emanuele Lauria su sprechi e privilegi in Sicilia. Si parte con un precedente del Cinquecento: mentre il regno di Spagna aboliva le guarentigie per i tribunali sacri, a Palermo chi faceva parte del Sant'Uffizio godeva ancora dell'immunità. Cinque secoli più avanti la Corte dei conti accuserà la folla di stipendiati della Regione diventati 144 mila
di ENRICO DEL MERCATO e EMANUELE LAURIA


"Todos los ricos, nobles y los delinquentes". Il 3 novembre del 1577 il nuovo viceré di Sicilia, Marco Antonio Colonna, eroe della battaglia di Lepanto, scrive al sovrano di Spagna, Filippo II, per spiegargli perché nell'Isola è così difficile governare. Parla di nemici, "tutti ricchi, nobili e delinquenti". Ma chi sono? Sono i membri del Sant'Uffizio, nella sede siciliana dell'Inquisizione. E sono tantissimi: almeno 24 mila persone, considerando i 1.572 dipendenti diretti e tutti gli altri "affiliati" che possono beneficiare di privilegi e immunità.

Un bel carrozzone clientelare in stile rinascimentale che l'eroe di Lepanto si era messo in testa di smantellare. O, quantomeno, di ricondurre alle dimensioni che gli uffici dell'Inquisizione avevano nel resto del Regno. E già, perché una tale pletora non era dato trovarla né a Napoli, né in Castiglia, né in Aragona. Anzi. A far saltare la mosca al naso del viceré era stata proprio la lettura degli atti di Concordia firmati qualche anno prima del suo arrivo in Sicilia. In base a quegli accordi, in tutto il Regno di Spagna le strutture dell'Inquisizione erano state riformate: snellite nei loro apparati burocratici e, soprattutto, private di una sostanziosa parte dei privilegi. In particolare, gli appartenenti al Sant'Uffizio erano stati sottratti alla giurisdizione speciale del foro dell'Inquisizione per reati non attinenti alla religione. Significava che, se qualcuno avesse commesso un omicidio o un furto, sarebbe stato giudicato non più da una corte composta da "amici", ma da un normale tribunale.

In quell'anno 1577, in cui l'eroe di Lepanto arrivò a Palermo, tutto questo era la regola nell'intero e vasto Regno guidato da Filippo II. Ovunque, tranne che nella "specialissima" Sicilia. Laggiù, nell'isola, chi faceva parte della mastodontica struttura del Sant'Uffizio poteva ancora farla franca, anche se si fosse macchiato di reati che con la religione non c'entravano nulla. Un bel privilegio, non c'è che dire, che faceva gola a parecchi. "In Sicilia - scriveva Marco Antonio Colonna al re - si fa a gara per entrare nel numero dei dipendenti del Sant'Uffizio, nella convinzione che tale acquisto li liberi da ogni timore di giustizia e li renda sicuri".

Insomma, tutti i ricchi, i nobili e i delinquenti di Sicilia (per stare alle parole del viceré) correvano a garantirsi un posto in quel carrozzone che era diventato il tribunale dell'Inquisizione, non tanto per assolvere alla cieca esigenza di punire apostati, bestemmiatori, giudei e sodomiti, quanto per garantirsi, pragmaticamente, un vastissimo spazio di impunità. Ecco allora "uno strepitoso ampliamento della rete dei familiari e degli ufficiali che operavano al servizio del Sant'Officio. In poco più di un decennio si era avuta una crescita del 300 per cento".

Per contrastare questo andazzo, Marco Antonio Colonna pensò di riformare gli uffici dell'Inquisizione in Sicilia uniformandoli a quelli del resto del Regno. Figurarsi, si rivelò subito una missione impossibile. Aveva messo le mani, l'eroe di Lepanto, su un grumo di interessi protetti, ma soprattutto aveva toccato l'orgoglio siculo, scalfendo uno dei princìpi non scritti sui quali esso si fonda: la Sicilia è una "nazione" a sé, per la quale lo Stato centrale (sia esso il Regno di Spagna o, molto più tardi, la Repubblica italiana) deve prevedere leggi autonome, speciali, riservate solo ai siciliani e non in vigore altrove.

Non a caso, in quella lunga e solo apparentemente non sanguinosa guerra di potere col Colonna, i difensori dei privilegi del Sant'Uffizio siciliano sostennero non solo che l'Inquisizione in genere dovesse avere più poteri ovunque, ma che la struttura siciliana dovesse avere più potere di ogni altro Santo Officio spagnolo. Uno di loro scriveva così a Filippo II: "Che cosa può attendersi mai vostra Maestà da un Regno tanto inquieto e lubrico come la Sicilia, posto in mezzo ai suoi nemici, tanto lontano dalla sua presenza, pieno di eretici e di turchi che, per la molta pratica di navigare in quei mari, vi svernano con la medesima sicurezza come in Levante e se gli eretici non fan lo stesso è per il timore del Sant'Officio?".

Per difendere il loro privilegio autonomista gli inquisitori e i signori loro alleati sparsero veleni e maldicenze sul viceré, agitarono lo spettro della totale distruzione dell'Inquisizione, iniettarono a corte, a Madrid, venefici ragionamenti sul fatto che l'eroe di Lepanto - in quanto italiano - mal conciliasse i propri sentimenti con quelli della Corona spagnola. Alla fine, gli inquisitori siciliani la spuntarono.

Nel 1580 fu firmata una nuova Concordia che regolava i rapporti tra il Sant'Uffizio e la Corona e che, ovviamente, lasciava intatti i privilegi dell'Inquisizione siciliana. Marco Antonio Colonna, sommerso dai veleni e dalle dicerie, cadde in disgrazia presso il sovrano. Venne "commissariato "con l'invio di un osservatore da Madrid e, ben prima che scadesse il suo mandato, fu richiamato in Spagna per discolparsi. Durante il viaggio morì. Resta il sospetto che sia stato avvelenato.

Cinquecento e passa anni dopo, nella Sala delle capriate dello Steri, che fu la sede dell'Inquisizione in Sicilia, il procuratore generale della Corte dei conti Vincenzo Coppola snocciola le cifre del pachidermico bilancio della Regione siciliana. È il 30 giugno del 2010, il giorno in cui - per tradizione - i magistrati contabili passano in rassegna le cifre sulle quali si regge il bilancio dell'ente al quale più di ogni altro i siciliani affidano la propria vita, dalla culla alla bara: la Regione, per l'appunto. È un appuntamento, questo, di routine.

Sotto il tetto dalle volte lignee, a pochi passi dalle stanze nelle quali - ai tempi del viceré Marco Antonio Colonna - venivano torturati eretici, giudei, bestemmiatori, rotolano numeri che raccontano l'annuale miracolo della Regione autonoma siciliana: un bilancio che dovrebbe costringere a portare i libri in tribunale e che, invece, continua ad assistere i siciliani come se fossero gli ultimi superstiti del socialismo reale. Quando il procuratore Coppola arriva al numero di dipendenti che la Regione siciliana ha in organico, però, sembra di rivedere in quelle stanze l'eroe di Lepanto chino a scrivere a Filippo II la lettera sulla pletorica "famiglia" del Sant'Uffizio siciliano.

"Alla data del 31 dicembre - scandisce il magistrato contabile - i dipendenti a tempo indeterminato della Regione hanno raggiunto il numero di 13.528". Ma non sono solo questi gli stipendiati in via diretta dall'amministrazione regionale. A loro si aggiunge quello che il procuratore generale della Corte dei conti chiama "personale esterno a tempo determinato": esattamente 7.114 persone. In questa categoria entrano 1.461 lavoratori utilizzati nelle Spa di cui la Regione controlla l'intero pacchetto azionario e delle quali, dunque, sostiene per intero le spese, i dirigenti e i funzionari a contratto. Tirando le somme, i dipendenti a foglio paga della Regione raggiungono la cifra di 20.642 unità. Ma non basta neppure questo numero a comprendere quale peso abbia sulla società siciliana la Regione.

A quei 20.000 e passa dipendenti diretti, infatti, va aggiunto ancora l'esercito di precari che ogni mese riceve un assegno dalle casse regionali: lavoratori socialmente utili, lavoratori a progetto, forestali, dipendenti delle Asl. Sommandoli agli impiegati si arriva alla cifra di 144.147. È il numero di stipendi che paga ogni mese Mamma Regione siciliana: più del doppio della Fiat, la maggiore industria italiana, oppure l'intera popolazione di una città come Salerno, anziani e neonati compresi. È come se le radici di quell'antico carrozzone denunciato dal viceré Marco Antonio Colonna fossero riemerse producendo un nuovo mostro burocratico dispensatore di assistenza e privilegi.

(20 novembre 2010)

Fonte: Repubblica.it

2 comments:

Anonymous said...

grazie
su Facebook io sono Giovanni Visalli
su Youtube ONIR56
forse già ci conosciamo

Comitato Storico Siciliano said...

Un fatto storico usato per meri scopi politici attuali.

Perchè non parliamo un pò anche dei bravi di manzoniana memoria che sembrano essere tornati in auge